Madonna della scodella
Questa grande pala d’altare era stata dipinta per la cappella di San Giuseppe nella chiesa di San Sepolcro a Parma. La sua cornice dorata, progettata dallo stesso Correggio, reca la data del 1530 ma probabilmente l’esecuzione si deve scalare a uno o due anni prima. Fu ricordata da Vasari in una citazione entusiasta ed ebbe un destino analogo a quello della Madonna di San Girolamo, fu cioè trafugata dalle truppe napoleoniche per poi tornare a Parma, nella sede attuale, solo nel 1896. Il titolo con cui è conosciuta è significativo dell’importanza visiva che il Correggio volle riservare, qui come nella Madonna della cesta, al semplice oggetto della scodella.
Il soggetto proviene dai Vangeli apocrifi e, prima del Correggio, non aveva conosciuto grande fortuna nella produzione artistica italiana. Era invece più frequente al Nord, come testimoniano opere di Albert Aldorfer e di Lucas Cranach . L’evento rappresentato sarebbe avvenuto durante la fuga in Egitto della Sacra famiglia, quando Giuseppe avrebbe tentato di cogliere i datteri della palma miracolosa per nutrire la Vergine e il Bambino. Nel momento in cui la palma si era raddrizzata sarebbe sorta dal terreno una sorgente d’acqua miracolosa. Il ruolo di protagonista di Giuseppe andava quindi a rispondere alle esigenze della cappella, dedicata al santo che era anche titolare della confraternita che aveva commissionato il dipinto.
L’immagine è costruita su una linea diagonale, che si inaugura a sinistra con la scodella d’argento e segue quindi il sapientissimo intreccio di mani fra la Vergine, il Bambino e San Giuseppe. Il Bambino è colto in un calcolato contrapposto che gli permette di giocare il ruolo di trait d’union fra il mondo dipinto, a cui appartiene, e il mondo reale degli osservatori a cui rivolge uno sguardo ammiccante.
In alto una gloria di angeli si libra in un animato girotondo memore degli affreschi della cupola del Duomo.
L’opera ebbe un’eccezionale fortuna figurativa. Fu studiata da Lelio Orsi , da Federico Barocci , da Lanfranco, Domenichino e, più tardi, da Carlo Maratta e Pompeo Batoni. [M. Spagnolo]
- Vasari, 1568: “e le maravigliose figure che sono nella chiesa di San Sepolcro alla cappella di San Ioseffo, tavola di pittura divina”
- Spagnolo 1, p. 122: “Non sappiamo esattamente quando queste opere cominciassero ad essere chiamate con questi titoli, ma sicuramente nel primo Seicento essi erano già in uso. Probabilmente anche prima non doveva sfuggire a nessuno che il Correggio aveva dato in quei lavori, come in altri successivi, un’eccezionale importanza a quegli oggetti simbolici trattandoli come strumenti d’uso quotidiano e facendoli partecipare come tali, e non come simboli statici e astratti, alla storia sacra. Questo processo di animazione degli attributi, iniziato da Leonardo nel primissimo Cinquecento e poi sviluppato da Michelangelo e Raffaello e quindi da artisti come Andrea del Sarto e il Correggio, rappresentava, come è stato notato, una delle più profonde innovazioni di quella che Vasari definiva la “maniera moderna”
A questa bella tavola permane il titolo popolare di “Madonna della scodella“, ma si deve considerare il fatto che sia, senza dubbio, un “Riposo durante il ritorno dall’Egitto“. La pala venne collocata sul primo altare di sinistra della chiesa del Santo Sepolcro a Parma (dove tuttora se ne vede una copia) che era officiato dalla Società di San Giuseppe, una pia confraternita da poco costituita ma molto attiva in onore dello Sposo di Maria. Il Correggio, come già per la “Notte“, disegnò anche l’elegante e classica ancona lignea, dorata. Il dipinto e l’ancona sono oggi riuniti presso la Galleria Nazionale di Parma.
Non stupirà affermare che il protagonista della pala sia il titolare della Cappella, ossia San Giuseppe, come del resto dichiara l’epigrafe dedicatoria sul piedestallo: “Divo Joseppo Deiparae Virginis Custodi, …”
Non era facile trovare un soggetto dove Giuseppe fosse il personaggio principale, da porre in bella evidenza senza eliminare o sminuire la presenza degli altri due membri della Sacra Famiglia, in realtà ben più importanti. Forse il Correggio suggerì il tema che egli aveva già intensamente studiato nel “Riposo” eseguito per la sua città natale intorno al 1520, e al commento del quale rimandiamo. Il momento così intensamente famigliare del refrigerio, arricchito dalla gioia del ritorno in Israele, fu ritenuto appagante al pittore e ai committenti: in questo modo davvero San Giuseppe poteva apparire provvidente e necessario nel suo specifico compito di custode, protettore e nutritore di Maria e di Gesù. I disegni preparatori sono stati diversi, e qualcuno sembra effettivamente risalire ai primi anni venti, indicando così un calmo pensiero dell’autore, ben solito a meditare lungamente, a interporre i vari lavori tra loro, ad animare la stesura pittorica in corso d’opera. Ecco perché anche le grandi pale correggesche non sono la traduzione a colori di un disegno preparatorio ben definito, ma portano con sé il respiro della creatività in ogni parte, o gesto, o mimica comunicante.
Così è per questo “Riposo nel ritorno dall’Egitto“, che può mostrare Gesù ormai fanciullo, capace di agire tra i genitori; può attribuire a Giuseppe una dimensione e una presenza scenica rilevante, vedendolo “insolitamente giovane” e dotato – per una volta – di nobili vestimenti; può realizzare la simultaneità dei due miracoli riportati dai vangeli apocrifi, ovvero l’offerta dei datteri da parte della palma che si protende verso San Giuseppe, e lo sgorgare dell’acqua dalla roccia, raccolta da un putto angelico e versata nella scodella di Maria.
E’ splendidissima la composizione, in ardita e perfetta diagonale, stesa sull’ipotenusa di un triangolo pitagorico, e concatenata dagli allunghi delle braccia e delle mani; ove il fremere ruscellante dei panneggi e l’intreccio gaudioso dei colori giocano con la luce del meriggio. Anticlassica e prorompente di vita questa composizione, incentrata – si noti – sul Gesù giovinetto, in piedi, che ci volta le spalle. Due angeli chiudono la sequenza sghemba: l’inserviente dell’acqua a sinistra per chi guarda, e un più robusto efebo a destra, intravisto dentro un ardito spiraglio di profondità, che blocca con la corda l’impeto dell’asino, il quale – anche qui – vorrebbe partecipare in primo piano alla sosta festosa.
La concavità del bosco e la sua densa umbratilità variegata sono l’invaso prestigioso del pennello allegriano. Sopra di essa si spalanca un gorgo sospeso di spiriti angelici, smaglianti di lume dorato tra nuvole azzurre, portanti in paradiso per premio un ramo della palma ubbidiente. Un altro prodigio del pittore dei cieli. (G.Adani)